8 gennaio 2008

Doze Cordas Trio e il critico dall'olfatto sensibile

Nell’ultimo numero di “Musica jazz” (gennaio 2008), sono rimasto colpito da una critica di Alberto Bazzurro sul cd “Brisa” (music center BA 158) dei Doze Cordas Trio che riporto integralmente:
“Brisa. Le corde della chitarra (acustica e elettrica) di Massimo Minardi e del contrabbasso di Tito Mangialajo, unite a quelle vocali di Francesca Ajmar, stanno al centro di questo ennesimo album di smaccato referente brasiliano, un filone decisamente inflazionato che il presente lavoro (con ospiti, a iniziare da Carlo Nicita flauto) attraversa senza lasciare tracce particolari come capita del resto alla maggior parte dei suoi simili. Sarebbe il caso di fare tutti un bel passo indietro: l’olezzo modaiolo è troppo forte per non avvertirne la scia”.
Finito. Poche righe. Poche righe per distruggere un cd. Senza possibilità di appello.
Francesca Ajmar, Massimo Minardi, Tito Mangialajo Rantzer sono tre valenti e preparati musicisti di jazz, innamorati da sempre della musica brasiliana. Secondo il mio modesto avviso il cd è ben fatto, volutamente vicino alla tradizione della musica d’autore brasiliana con ben calibrate incursioni nella tradizione jazzistica (ottimi gli interventi del bravo flautista Carlo Nicita). Gli arrangiamenti sono volutamente minimalisti prediligendo l’autenticità.
Ma queste sono solo mie modeste considerazioni che certamente valgono meno di quelle del critico Alberto Bazzurro che è un professionista della critica. Per cui rispetto il fatto che il cd non gli sia piaciuto e che abbia il coraggio di stroncarlo sulla più importante rivista di jazz in Italia.
L’unica cosa che è difficilmente accettabile in questa critica è la conclusione e anche la forma con cui la espone: “l’olezzo modaiolo è troppo forte per non avvertirne la scia”.
Questo non è condivisibile perché errato. E’ chiaro che il nostro Alberto Bazzurro è lontano anni luce da cosa sia modaiolo oggi. La bossa nova è stata di moda soprattutto negli anni ’60, grazie a una commistione che ha avuto anche risvolti artistici interessanti e in alcuni casi affascinanti come testimoniamo i cd di Stan Getz e Joao Gilberto, il famoso cd “Francis Albert Sinatra & Antonio Carlos Jobim” del 1967 e molti altri. Ma queste cose il preparato Bazzurro le sa molto meglio di noi dal momento che di professione fa il critico musicale. Quello che Bazzurro e la maggior parte dei critici non sanno (non tutti perché ce ne sono molti che vivono a stretto contatto con la realtà musicale) è quanto sia difficile farsi produrre un cd di musica d’autore brasiliana in Italia. Se da una parte esistono decine di etichette vicine al jazz, anche al jazz emergente (Splasch, Abeat, Docicilune, Wide Sound, Videoradio, Red Record, Cam Jazz, Cd del Manifesto, Balck Saint, Music Center, Philology, Panastudio, Map, ecc.) dall’altra poche di queste sono inclini a produrre musica d’autore brasiliana. Le etichette rivolte esclusivamente a questo genere musicale sono poi quasi inesistenti. E queste cose Bazzurro non le sa perché penso che non abbia mai provato a farsi produrre un cd (a lui generalmente i cd li regalano). Il nostro critico quando parla di “olezzo modaiolo” non conosce quanta scarsa considerazione ci sia per la musica d’autore brasiliana nel mondo dei club dove si fa musica dal vivo in Italia. Di quanto poco si possa suonare in giro con un progetto di questo genere e quanto sia difficile e costoso realizzare un cd.
Qui parliamo di “olezzo modaiolo” perché uno suona autori ormai sconosciuti come Roberto Guimaraes, Carlos Lyra, Baden Powell miscelandoli con brani di propria composizione?
Ma il nostro critico accende ogni tanto la radio o la tv per rendersi conto cosa sia oggi modaiolo?
Proviamo a chiederlo a un deejay radiofonico, a un qualsiasi ventenne o a un proprietario di locale dove si fa musica dal vivo se sa chi è Johnny Alf o Carlos Coqueijo o Milton Nascimento. Strano non conoscerli perché c’è chi, come i Doze Cordas Trio, incide i loro brani per essere commerciali e modaioli. Di modaiolo c’è solo sparare su un gruppo “minore” e scrivere sempre e comunque bene dei soliti nomi. Troppo facile.
Mi dicono che non si deve mai parlare male di un critico e che si deve fare finta di niente. E’ vero ho, sbagliato. Che noi dobbiamo suonare e basta e sperare che qualcuno parli bene di noi. Beh, questa volte avevo io voglia di parlare bene dei Doze Cordas Trio. E lo faccio su questo piccolo blog.
Mi va invece di sottolineare che sullo stesso numero di Musica Jazz c'è un interessante articolo di Antonio Iammarino sulla didattica del jazz con interviste a noti musicisti e didatti.
Buona lettura e buon ascolto per chi avrà voglia, invece, di comprarsi “Brisa”.

www.myspace.com/dozecordastrio

Max De Aloe

1 gennaio 2008

"Piano, solo" e "Il disco del mondo - Vita breve di Luca Flores, musicista"


Giorni di festa, giorni di relax nei quali ho fatto una grande abbuffata, più che di cibo, di libri, musica e film. Tra i film ho visto “Piano, solo” sulla vita del pianista jazz fiorentino Luca Flores del regista Riccardo Milani. Nel 2003 avevo letto in un’unica notte (cosa che ho rifatto due notti fa) “Il libro del mondo – vita breve di Luca Flores, musicista” di Walter Veltroni e ne ero rimasto affascinato. Forse siamo stati tra i primi in quello stesso anno a dedicare la prima serata della prima edizione del Gallarate Jazz Festival alla memoria di Luca Flores invitando a suonare Alessandro di Puccio, valente vibrafonista, che è stato di Flores il più grande amico.
Prima di leggere il libro di Veltroni conoscevo la musica di Flores e alcuni aneddoti sulla sua vita. Non ho mai avuto la fortuna di suonare con lui ma negli anni dopo la sua morte ho avuto parecchie occasioni di sentire commossi ritratti di musicisti che gli erano stati vicini. Tra le varie occasioni ricordo un nostalgico racconto fatto da Barbara Casini e Lello Pareti durante tre giorni di prove nei quali eravamo stati ospiti, proprio nella casa di Barbara a Firenze, per la realizzazione del cd dedicato a Caetano Veloso.
Luca Flores, è stato uno dei pianisti più valenti del nostro jazz a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Un musicista in cui genialità, esasperata sensibilità ed autolesionismo si sono fusi in una vita a corrente alterna. Da una parte gli alti di una musica intensa che lui ha sempre affrontato con rigore e disciplina, lontano dal clichè del musicista maledetto, e dall’altra gli inferi della malattia mentale che lo hanno portato al suicidio nel marzo del 1995 all’età di 39 anni.
Come spesso accade il film tradisce le aspettative, soprattutto quando è tratto da un libro sincero e scritto sulle ali dell’intensità (basterebbe solo l’introduzione di Veltroni a suggerirvi di leggerlo).
Il merito di questo film è quello comunque di parlare di un artista sconosciuto ai più e questo non è poco. Parlare di una storia vera, drammaticamente intensa. Ma mancano, a mio avviso, la volontà di approfondire l’aspetto di vitalità che pure si ascolta nella musica di Flores, di approfondire i mille interessi di un uomo intenso come lui in un momento storicamente importante per il jazz italiano. Sembra che il film si muova solo sul piano del dramma perdendo l’occasione di andare più a fondo. In compenso ci sono attori di spessore che sono riusciti a calarsi nella parte in maniera assolutamente convincente. Tutti, dal protagonista Kim Rossi Stuart a Michele Placido, Jasmine Trinca ma soprattutto un’incredibile Paola Cortellesi nel ruolo di Barbara, sorella di Luca.
La musica è inevitabilmente unica, importante. Le scelte musicali sono state fatte con attenzione e là dove non ci sono le vere registrazioni di Luca Flores (con un Kim Rossi Stuart che interpreta con grande perizia i movimenti del pianista) ci sono le interpretazioni di Stefano Bollani accompagnato da Roberto Gatto ed Enzo Pietropaoli. Le parti di musica classica sono lasciate alla maestria di Gilda Buttà, pianista da moltissimi anni di tutta la produzione di Ennio Morricone, e scusate se è poco.
Di Luca Flores vi suggerisco l’ascolto del cd uscito postumo “For those I never Knew” (che sta suonando nel mio pc proprio mentre sto scrivendo, realizzato per la Splasch Records – ) oltre che di “Streams” (Tiziana Ghiglioni Sextet – Splasch Records) e un meraviglioso “Easy to love” (Massimo Urbani Quartet – Red Records).
Il video che ho allegato qui sotto ritrae immagini del film ma soprattutto ha come colonna sonora "How far can you fly?" il brano composto e registrato da Flores, dieci giorni prima di uccidersi. Qui c'è tutta la poesia e il dramma di Luca.
Sarebbero molte le cose da dire su questo artista ma prima ascoltate la sua musica, poi, se ne avete voglia andate a scoprire qualcosa in più. Per fortuna, grazie a Walter Veltroni e a Riccardo Milani c’è anche un libro e un film.
Vi lascio con uno stralcio di una lettera che Luca Flores ha scritto alla famiglia durante il suo lungo viaggio negli Stati Uniti:
“Il linguaggio della musica è uno, ed è quello dell’anima, là dove le parole c’ingannano con i loro mille significati. E’ libera di volare in paradiso, di scendere nelle viscere dell’inferno o di starsene a galleggiare nel limbo. Io amo quei musicisti che cantano, scrivono e suonano ogni nota come se fosse l’ultima.”


24 novembre 2007

Ballata delle madri di Pier Paolo Pasolini

In questo sabato piovoso di novembre, vi propongo una poesia di Pier Paolo Pasolini scritta quarant'anni fa e ancora meravigliosamente e maledettamente attuale.
Buona Lettura, Max


Ballata delle madri

di Pier Paolo Pasolini


Mi domando che madri avete avuto.
Se ora vi vedessero al lavoro
in un mondo a loro sconosciuto,
presi in un giro mai compiuto
d’esperienze così diverse dalle loro,
che sguardo avrebbero negli occhi?
Se fossero lì, mentre voi scrivete
il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
o lo passate a redattori rotti
a ogni compromesso, capirebbero chi siete?

Madri vili, con nel viso il timore
antico, quello che come un male
deforma i lineamenti in un biancore
che li annebbia, li allontana dal cuore,
li chiude nel vecchio rifiuto morale.
Madri vili, poverine, preoccupate
che i figli conoscano la viltà
per chiedere un posto, per essere pratici,
per non offendere anime privilegiate,
per difendersi da ogni pietà.

Madri mediocri, che hanno imparato
con umiltà di bambine, di noi,
un unico, nudo significato,
con anime in cui il mondo è dannato
a non dare né dolore né gioia.
Madri mediocri, che non hanno avuto
per voi mai una parola d’amore,
se non d’un amore sordidamente muto
di bestia, e in esso v’hanno cresciuto,
impotenti ai reali richiami del cuore.

Madri servili, abituate da secoli
a chinare senza amore la testa,
a trasmettere al loro feto
l’antico, vergognoso segreto
d’accontentarsi dei resti della festa.
Madri servili, che vi hanno insegnato
come il servo può essere felice
odiando chi è, come lui, legato,
come può essere, tradendo, beato,
e sicuro, facendo ciò che non dice.

Madri feroci, intente a difendere
quel poco che, borghesi, possiedono,
la normalità e lo stipendio,
quasi con rabbia di chi si vendichi
o sia stretto da un assurdo assedio.
Madri feroci, che vi hanno detto:
Sopravvivete! Pensate a voi!
Non provate mai pietà o rispetto
per nessuno, covate nel petto
la vostra integrità di avvoltoi!

Ecco, vili, mediocri, servi,
feroci, le vostre povere madri!
Che non hanno vergogna a sapervi
– nel vostro odio – addirittura superbi,
se non è questa che una valle di lacrime.
È così che vi appartiene questo mondo:
fatti fratelli nelle opposte passioni,
o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
a essere diversi: a rispondere
del selvaggio dolore di esser uomini.

4 novembre 2007

Las Madres de Plaza de Mayo e i chicos di Alessandria

Venerdì 19 ottobre 2007. Ci sono le madri di Plaza de Mayo in Italia. Il nucleo storico delle madri, quelle alle quali il governo dittatoriale in Argentina tra il ’77 e l’83 ha fatto scomparire in Argentina più di 30.000 figli. Le madri dei “desaparecidos” che per trent’anni hanno marciato in Plaza de Mayo chiedendo giustizia e che oggi in Argentina sono a capo di progetti sociali meravigliosi: un’ università popolare, una biblioteca, una radio ma soprattutto a capo di un progetto di ricostruzione di un intero quartiere con abitazioni per 1.500 persone, costruite dalle stesse persone che ci andranno ad abitare. Queste madri che sono oggi portabandiera di pace e giustizia, quelle con le lettere maiuscole di chi ha lottato contro una dittatura, pagando con il prezzo più alto, quella dell’uccisione dei loro figli. E che oggi portano avanti i progetti che avrebbero realizzato i loro figli. Una battaglia che è diventata attuazione di un progetto sociale, oggi condiviso dal presidente dell’Argentina.
Le stesse madri che con grande entusiasmo e passione raccontiamo nello spettacolo “Por la vida”, di cui ho già scritto in questo blog. Ed è proprio “Por la vida” che la mattina del 19 ottobre andiamo a rappresentare ad Alessandria davanti al nucleo storico delle madri e a oltre 500 studenti delle scuole superiori della città piemontese. Nei camerini, prima dello spettacolo, c’è più tensione del solito. In sala, in prima fila, ci sono “le madri”, invitate dalla regione Piemonte e soprattutto siamo preoccupati di come risponderanno questi ragazzi davanti a una storia di cui sicuramente non sanno nulla, lontana anni luce dal loro mondo.
Lo spettacolo inizia. In sala non vola una mosca e gli applausi sono persino più frequenti e inaspettati del solito. A metà spettacolo mi ritrovo a suonare un brano sul boccascena, la luce illumina anche le prime file ed è in quel momento che vedo due donne anziane con il fazzoletto bianco in testa, il simbolo delle “madres”. Sono attente, a tratti si stringono le mani tra loro. Per me l’emozione è fortissima, istantanea, paralizzante, cerco di proseguire e riesco a farlo solo perché mi sforzo di non guardare più verso di loro, l’emozione è troppo forte.
Sull’ultima nota di “El dia que me quiras”, che chiude “Por la vida”, ho il coraggio di riaprire gli occhi e in quel momento vedo queste due donnine scattare in piedi per omaggiarci e con loro tutti i ragazzi. La più bella “standing ovation” della mia modestissima carriera.
Loro, che per trent’anni hanno lottato contro presidenti, militari e capi di Stato sono in piedi ad omaggiare due teatranti e un musicante. La stessa cosa succederà anche a Roma domenica 21 ottobre quando replicheremo “Por la vida” ancora davanti alle madri e alla loro presidente Ebe De Bonafini ( http://it.youtube.com/watch?v=W9FA0Bx8XH0 ). Ma l’esperienza forte e trascinante di quella mattina ad Alessandria non è ancora finita. Dopo aver ricevuto gli abbracci e le parole delle madri che sono sicuro di conservare sempre serrate dentro di me negli anni a venire, inizia una sorta di dibattito incontro tra le madri e i giovani presenti. Parole emozionanti, precise, autentiche arrivano da queste rivoluzionarie ottantenni. E dopo si dà la parola agli studenti. E qui arriva un’altra gradita sorpresa. Ragazzi e ragazze, con i loro jeans calati a mezza mutanda e con le cuffiette degli i-pod che sbucano dai giubbetti di jeans iniziano uno dopo l’altro a rivolgere domande alle madri sforzandosi di parlare solo in spagnolo. Le domande sono forti, inequivocabili, intelligenti. E soprattutto tutti si sforzano di parlare in spagnolo. Solo in spagnolo, per rispetto alle madri. Non mi sembra di essere in Italia, tra studenti di scuole tecniche e licei statali. Passa un’altra ora e mezza di dibattito. Le madri sono felici di essere lì, in mezzo ai loro “chicos” italiani. Io sono inebriato da questi ragazzi. E mi chiedo dove cazzo sono andati a finire gli stereotipi dei giovani che la maggior parte della stampa ci racconta. Ma in fondo l’ho sempre saputo che la maggior parte dei ragazzi di oggi non c’entrano nulla con quella minoranza facilmente archiviata con fenomeni di “bullismo” che tanto piacciono ai mass-media, al signor Vespa, al signor Mentana ma anche a Santoro, Fede e chi più ne ha più ne metta.
Un esempio banale: in ogni edizione del Gallarate Jazz Festival, da cinque anni a questa parte, ci siamo inventati uno spettacolo alla mattina riservato ai ragazzi delle scuole superiori gallaratesi. E in ogni occasione c’è sempre stata una sorprendente attenzione. Nell’ultima edizione abbiamo proposto ai ragazzi la musicazione dal vivo di “Nanuk l’eschimese” (a cui è stato dedicato un post in questo blog). Non una puntata del Grande Fratello ma 80 minuti di un film del 1922 in bianco e nero su una famiglia di eschimesi. Eppure la poesia del film documentario e le belle musiche dal vivo dei Q3 hanno rapito i ragazzi liberandoli solo alla fine del filmato con uno scrosciante applauso. Alla sera lo spettacolo è stato replicato nella programmazione del festival e tre intere file erano occupate da giovani tra i sedici e diciott’anni. Incuriosito ho parlato con loro e ho scoperto che alcuni dei ragazzi che erano rimasti affascinati alla mattina dallo spettacolo avevano convinto altri coetanei a riaccompagnarli alla sera per rivedersi “Nanuk l’eschimese”.
Che i giovani d’oggi abbiamo solo bisogno che li si aiuti a confrontarsi con contenuti più importanti e con le emozioni forti delle storie vere? Un’emozione di una storia vera come quella delle madres e dei loro figli. Figli che erano anche loro studenti che hanno sentito il bisogno di alzare un’ipotetica mano e dire cosa ne pensavano della vita, della società, della politica, così come trent’anni dopo i “chicos” di Alessandria.

Max De Aloe

16 settembre 2007

GALLARATE JAZZ FESTIVAL 2007

La quinta edizione del Gallarate Jazz Festival si presenta nel nome dell’ecletticità e dell’originalità, con un programma di assoluto coinvolgimento.
Pur seguendo sempre la proposta del jazz italiano, il Festival di quest’anno si caratterizza per dar spazio in egual misura ai grandi nomi del jazz nostrano così come a talentuosi e sorprendenti giovani emergenti. Un festival ha anche l’obbligo di rischiare e di proporre novità e così nasce un’edizione che testimonia una maggiore apertura ai vari generi del jazz. Un festival più vario, capace di interessare una più ampia fascia di pubblico, dai neofiti agli addetti ai lavori, senza perdere la sua forte impronta stilistica.

L’apertura del festival, venerdì 5 ottobre 2007, è lasciata a cinque all star del jazz italiano che hanno saputo dare lustro al nostro jazz in tutto il mondo. Un quintetto formidabile, come testimonia il recente loro cd presentato dalla rivista “L’Espresso”, capitanato dal batterista romano Roberto Gatto vedrà Rosario Bonaccorso, Dado Moroni, Daniele Scannapieco e Flavio Boltro cimentarsi con il repertorio del memorabile quintetto di Miles Davis di metà anni ’60. Una sfida che solo un quintetto di fuoriclasse come loro poteva decidere di intraprendere. Stiamo parlando di cinque grandi musicisti italiani che hanno condiviso palchi in tutto il mondo con nomi storici come, tra i tanti, Dizzy Gillespie, Wynton Marsalis, Pat Metheny, John Scofield, Freddy Hubbard, Chet Baker, Joe Pass, Lionel Hampton, Ray Brown, Michel Petrucciani, Michael Brecker, Joe Zawinul, ecc.
A riunire questi grandi musicisti c’è il carisma e l’ecletticità di Roberto Gatto, un maestro indiscusso della batteria che riesce sempre a dare ai suoi progetti musicali, oltre che un interessante ricerca timbrica e un’impeccabile tecnica esecutiva, un grande calore tipico della cultura musicale mediterranea. Questo fa sicuramente di Roberto Gatto uno dei più interessanti batteristi e compositori a livello internazionale.

Sabato 6 ottobre 2007, dopo lo spettacolo in mattinata riservato agli studenti delle scuole superiori di Gallarate, l’appuntamento è alle ore 16.00 alla sala conferenze del Teatro Condominio. Quest’anno non abbiamo invitato musicologi, giornalisti o critici musicali a parlarci di jazz ma un musicista, un grande musicista: Dado Moroni. L’incontro si chiama infatti “Carta bianca a Dado Moroni” e per una volta sarà un protagonista diretto, un musicista tra i nostri più blasonati in campo internazionale a dirci la sua su questa meravigliosa musica: aneddoti, riflessioni, spaccati di vita musicale. Ingresso gratuito.
Dalle ore 18.00 in poi le vie del centro cittadino saranno animate dalla musica coinvolgente della più nota marching band italiana: l’Ambrosia Brass Band. Nove musicisti faranno rivivere a Gallarate l’atmosfera di New Orleans. E sarà sempre L’Ambrosia Brass Band ad inaugurare la parte serale al Teatro Condominio: una musica “pazza e imprevedibile” in una miscela esplosiva che va da Stevie Wonder a Fabrizio De Andrè, tutto in rigoroso stile dixieland. Si proseguirà con la delicatezza dei Qtrio, tre fratelli giovanissimi di Lugano (di 18, 20 e 25 anni) che musicheranno dal vivo “Nanuk l’eschimese” (Nanook of the North) del 1922, del regista statunitense Robert Flaherty. A quanti immaginano una serata noiosa da film muto con improvvisazioni azzardate garantiamo l’esatto contrario. Ottanta minuti di vera poesia con un documentario storico su una famiglia di eschimesi con momenti di tenerezza e ironia difficile da trovare. Nanuk l’eschimese diventerà certamente l’eroe del nostro festival insieme ai giovani Qtrio e alla loro meravigliosa musica. Lo spettacolo dei Qtrio con la proiezione del film documentario di Flaherty sarà presentato anche in mattinata in esclusiva per gli studenti delle scuole superiori cittadine.


Conclusione domenica 7 ottobre 2007. Si inizia al mattino con un appuntamento alle ore 11.00 alla Galleria D’Arte Moderna di Gallarate con un concerto dei “Power Duo”, originalissima formazione che vede due giovanissimi percussionisti: Marco Bianchi (classe 1980) e Matteo Mascetti (classe 1983), impegnati rispettivamente al vibrafono e alla marimba. Una formazione che lascia spazio alla sperimentazione, al gioco delle dinamiche, alla ricerca armonica, al coinvolgimento emotivo come testimonia anche il loro cd “Armalletale” che, oltre ad aver vinto diversi referendum come miglior disco nel 2005 e 2006 ha fatto assegnare una borsa di studio ai due giovani musicisti al Berklee College of Music di Boston. L’ingresso è gratuito e seguirà aperitivo.
Alla sera, sul palco del Teatro Condominio gran finale con ancora sorprese e un altro doppio concerto. Aprirà la serata il “Federica Gennai Quartet”, un gruppo di giovani ma già affermati musicisti toscani che presenteranno il loro progetto su Charlie Mingus (con il quale hanno recentemente pubblicato il cd “Mingus’ sound of love”). Il quartetto, in esclusiva per il festival di Gallarate, si esibirà per la prima volta con il grande trombettista americano Andy Gravish che per l’occasione eseguirà gli arrangiamenti del quartetto sui brani di Mingus. Un regalo che il grande Gravish ha voluto fare alla cantante toscana e al nostro festival. E non è un regalo da poco visto che il trombettista della Pennsylvania ha suonato al fianco di musicisti come Frank Sinatra, Buddy Rich, Sarah Vaughan, Tony Bennett, Cab Calloway, ecc.
Chiusura con un doveroso omaggio per i cinquant’anni di musica di Bruno De Filippi che verrà premiato con un targa ricordo per la sua lunga carriera iniziata al fianco di Domenico Modugno (è lui ad accompagnarlo alla chitarra al Festival di Sanremo nel 1958 nella celebre “Nel blu dipinto di blu”) e poi di Celentano, Mina (è sua “Tintarella di luna”) e molti altri, per poi approdare al jazz al fianco di Louis Armstrong, Lionel Hampton, Astor Piazzola, Gerry Mulligan e molti altri. Oggi Bruno De Filippi è tra i pochi e più importanti armonicisti jazz nel mondo, ormai un vero caposcuola (innumerevoli sono i suoi duetti con il grande Toots Thielemans) che può vantare una carriera che il chitarrista e armonicista milanese ha saputo reinventare ogni volta risultando sempre moderno e portando il jazz italiano in prestigiose sedi come il Blue Note e la Town Hall di New York o la “Philarmonic Hall” di San Pietroburgo. Bruno De Filippi sarà accompagnato dal trio di Mario Rusca (un altro grande del nostro jazz italiano) e insieme presenteranno in prima assoluta il loro cd “Modugno Forever”, dedicato alla musica di Domenico Modugno rivisitata in chiave jazz e miscelata a standard della tradizione jazzistica americana.

Presentazione a cura di Max De Aloe






TEATRO CONDOMINIO VITTORIO GASSMANN
GALLLARATE JAZZ FESTIVAL – quinta edizione

Inizio concerti: ore 21.30 - Ingresso: € 5,00 – abbonamento per le tre serate € 12,00

Comune di Gallarate – Assessorato alla Cultura
Fondazione Culturale “1860 Gallarate Città”
Direzione Artistica: Centro Espressione Musicale – Gallarate



VENERDI’ 5 OTTOBRE 2007
Ore 21.30 – Teatro Condominio

ROBERTO GATTO SPECIAL QUINTET - A tribute to Miles Davis Quintet 64’ – 68’
Dado Moroni – pianoforte
Flavio Boltro – tromba
Daniele Scannapieco – sax
Rosario Bonaccorso – contrabbasso
Roberto Gatto - batteria



SABATO 6 OTTOBRE 2007
ore 10.30 – Teatro Condomino

Q TRIO presentano “Nanook l’eschimese”
Riservato agli studenti delle scuole superiori di Gallarate

ore 16.00 – Sala Conferenze del Teatro Condominio

Conferenza-incontro: “CARTA BIANCA A DADO MORONI”
Aneddoti, riflessioni, racconti sul jazz a cura di uno dei più importanti musicisti della scena jazzistica internazionale.

ore 18.00 – Centro Cittadino

Musica per le vie del centro con la più coinvolgente marching band italiana:
AMBROSIA BRASS BAND

Ore 21.30 – Teatro Condominio

AMBROSIA BRASS BAND
Rudy Migliardi- trombone
Marcello Noia - sax
Francesco Licita - sax
Giancarlo Mariani- tromba
Mauro Colombo - tromba
Fiorenzo Gualandris - tuba
Walter Ganda - cassa
Marco Castiglioni - rullante
Franco D'Auria – rullante


Q TRIO presentano “Nanook l’eschimese”
Nolan Quinn -tromba, flicorno, pianoforte, piano fender, loops electronics Sinon Quinn – contrabbasso
Brian Quinn -batteria



DOMENICA 7 OTTOBRE 2007
Ore 11.00– Galleria D’Arte Moderna (Viale Milano, 21 – Gallarate)

POWER DUO
Marco Bianchi – vibrafono
Matteo Mascetti – marimba
Seguirà aperitivo.


Ore 21.30 – Teatro Condominio

FEDERICA GENNAI QUARTET - ospite ANDY GRAVISH - presentano “Mingus’ sound of love”
Andy Gravish - tromba
Federica Gennai – voce
Daniele Gorgone - pianoforte
Franco Nesti - contrabbasso
Daviano Rotella - batteria

BRUNO DE FILIPPI e MARIO RUSCA TRIO
Bruno De Filippi – armonica cromatica e chitarra
Mario Rusca – pianoforte
Marco Ricci – contrabbasso
Tony Bradascio – batteria


Info:
fondazione@comune.gallarate.it
info@centroespressionemusicale.com
www.centroespressionemusicale.com
Tel: 0331.784140

5 agosto 2007

Ascoltare Dino Saluzzi, il maestro del bandoneon, è sempre un emozione grande. Sono in tanti a pensare che ormai da anni il settanduenne argentino sia il più rappresentativo bandoneonista al mondo. Un musicista che sa affascinare per la sua personalissima ricerca armonica, capace di dare al suo strumento la dignità della tradizione non solo del tango ma di molta musica folclorica argentina miscelata con un gusto e una ricerca musicale di stampo jazzistico. Un musicista capace di mettere in crisi i critici perché in grado di coniugare la musica folclorica e la musica cosiddetta colta, il jazz e le avanguardie, senza cadere in quello che ci si aspetterebbe da un bandoneonista: il tango. Suggerisco in queste pagine l’ascolto dell’ultimo cd che Timoteo “Dino” Saluzzi ha realizzato per la prestigiosa ECM. Un sodalizio che dura con l’etichetta di Manfred Eicher da più di venticinque anni. In questo Juan Condori lo troviamo nuovamente alla testa della “Saluzzi family”, il gruppo che vede il figlio José Maria alla chitarra, Matias (nipote? ) al basso elettrico e contrabbasso, il fratello Felix “Cuchara” al sax tenore, soprano e al clarinetto. Piacevolissima sorpresa la presenza del batterista italiano U.T. Ghandi alla batteria e percussioni. Una sorpresa ben meritata da un musicista che si è messo in luce più di dieci anni fa con la fortunata formazione di Enrico Rava, l’ electric five, e che è sempre stato capace d’intessere cd e progetti musicali d’intenso spessore. Tornando a “Juan Condori” è una musica che vi suggerisco per i momenti di grande relax da abbinare a una grappa di barbera, lasciandosi cullare dalla poesia di questo grande artista. Da evitare più che mai per questo cd l’ascolto in auto. Basterebbe la solo introduzione di “bandoneon solo” del primo brano, “La vueltas de Pedro Orillas” a giustificare i 20 euro spesi per il cd. Non ho ascoltato certo tutti i suoi cd ma mi permetto di suggerirvi anche l’ascolto di “Citè de la Musique” del 1997, in trio con Marc Johnson al contrabbasso e sempre suo figlio Josè alla chitarra (meraviglioso il brano “Introduccion y milonga del Ausente”), oltre a “Once upon a time – Far away in the south” del 1986 con Palle Mikkelborg alla tromba e flicorno, Charlie Haden al contrabbasso e Pierre Favre alle percussioni. Da non perdere anche “Volver” (1986) con Enrico Rava alla tromba, Furio Di Castri al contrabbasso, Bruce Ditmas alla batteria e Harry Pepl alla chitarra. Ascoltare poi Dino Saluzzi dal vivo è quasi commuovente. Almeno questo è quello che mi è successo quando ho ascoltato, insieme a non più di conquanta persone, al teatro Dal Verme di Milano un trio particolarissimo con Dino Saluzzi e i pianisti Gorge Gruntz e Thierry Lang.

Aspetto anche i vostri suggerimenti, buon ascolto, Max De Aloe

22 luglio 2007

Storie di pianisti ed orsacchiotti (di Eddie Fragolino)

In una notte buia e tempestosa un noto musicista di jazz (è evidente che non sono io) s’imbatte su You Tube nelle performances pianistiche di un capelluto pianista accompagnato dal suo fido orsacchiotto. Ne rimane talmente impressionato che descrive per filo e per segno l’accaduto. E dopo aver letto qualche mio post mi invia il suo divertente scritto. Una così dettagliata descrizione di quello che questo pianista è riuscito a fare merita di essere letta. Però devo dire al nostro Eddie Fragolino (?!?) che ha firmato questo simpatico post che il cachet del pianista protagonista del suo articolo è ormai più del doppio di quello che ha citato.

Ospito così sul mio blog questo post di Eddie Fragolino. Buona Lettura




Cari amici, ho saputo che un certo pianista, oggi famosissimo e superpagato ( buon per lui ) non si accosta al piano se non ha il suo orsacchiotto sul leggìo, poi descrive la sua esperienza con il problema dell'ansia e il pubblico, composto in buona parte da ragazzine, resta in silenzio partecipando emotivamente al racconto accorato dell'artista sul palco.

Intanto sono già passati dieci minuti e di musica non si è sentito neppure una nota! Poi il nostro eroe, pago di aver catturato l'attenzione del suo pubblico, si siede davanti alla tastiera con la corvina testa leonina quasi sulle ginocchia, e dopo aver fatto volteggiare più volte la mano nell'aria finalmente tocca la tastiera e fa "plìn plìn", seguito da una pausa di parecchi secondi prima di procedere a suonare. Siamo già al 23' e di note c'è ne sono state soltanto due.

Finalmente tutte e due le mani, sempre dopo aver volteggiato come gabbiani, si posano sui tasti e, accompagnato da un profondo e soffertissimo sospiro, con gli occhiali traballanti sul naso, ecco il primo geniale accordo : triade di Do ! Da lì parte una progressione a cui neppure Tatum ispirato avrebbe mai pensato : prima misura Do triade, seconda misura Sol triade, terza misura Re minore e quarta ancora Do, poi arpeggino con pedale ! Fantastico...il nostro eroe è riuscito a suonare circa quattro misure quasi a tempo, senza minimamente sfiorare una nona, settima o undicesima...e senza melodia ! Non ci aveva pensato mai neppure Ellington.

Al 30' appare la melodia e, udite udite, perfettamente conforme agli accordi ! Pensate amici miei, anche lì il nostro amico riesce a inventare una melodia tutta basata sulla terza maggiore o quinta negli accordi maggiori e addirittura una terza minore e tonica nei minori...

Come avrà fatto a inventarsi una roba del genere ? Scoprirò in seguito da una sua intervista a otto colonne che lui non improvvisa mai, alla carlona come fanno tutti gli altri, ma ci pensa anche due mesi prima di scrivere qualcosa. Ah, ecco come ha fatto ! Non sarebbe stato possibile creare una cosa così, sul momento...La melodia va avanti un pò e si arriva al 41'. Arpeggino finale in Sol maggiore ( triade ) e, dopo lunga pausa e mani volteggianti, gran bel Do triade finale, leggermente tremolato per poi chiudere il capolavoro con una nota altissima e singola, il Do.

E' il 43' e il numeroso pubblico esplode in un lungo applauso con il quale si arriva al 45'. L'artista si alza, sorride mestamente, si avvicina al microfono e parla per cinque minuti del suo rapporto difficile con la madre con conseguenti intolleranze alimentari. Le ragazzine hanno i lucciconi agli occhi e i loro fidanzatini le abbracciano stringendo loro la mano. Al 51' l'amico si siede di nuovo accarezzando l'amato orsacchiotto e dopo l'ormai consueto volteggiare delle mani suona un bel Fa maggiore con arpeggino, poi, per non voler staccare troppo con il brano precedente, si inventa una progressione molto simile però in Fa e di durata doppia, cioè di circa otto misure. Dico circa perchè, da grande strumentista che è, riesce talvolta a suonare battute di tre quarti e mezzo o quattro e quasi, come se fossero normali. Amici, ci vuole maestria, altro che !

Le teste degli spettatori ondeggiano mentre nel teatro le triadi e gli arpeggini svolazzano libere come farfalle al sole di Maggio...che magìa ! Al 63' un grande arpeggio di Do, questa volta con una settima voluta fortemente, sfocia in un magistrale e definitivo Fa - La - Do con Fa altissimo, singolo, quasi a perdersi nell'aria. Trionfo ! Tutti in piedi a urlare BIS ! BIS !
Il maestro sorride e si risiede. Dato che è un bis, risuona il brano precedente, però più lento e procede stancamente fino all'accordo finale che però cambia, stavolta. Il Fa singolo e altissimo sparisce per fare posto ad un tremolo sempre di Fa ma sui bassi. Sembra il temporale e le fanciulle si spaventano un poco, per poi rasserenarsi quando il nostro eroe si arresta un attimo e si gira verso il suo adorante pubblico, sorridendo con la timidezza di un bambino, poi immancabile arriva l'ultimo suono...ma non dal pianoforte, bensì dalla sua voce. "Grazie" dice sommesso e scompare leggermente ingobbito, con orsacchiotto sotto il braccio, dietro le quinte. Dove lo attende una bella busta con diecimila euro netti e una limousine per portarlo in albergo.

Poco lontano in un altro teatro, un distinto signore nero americano sui settant'anni ( cinquanta dei quali trascorsi in giro per il mondo accompagnando gente come John Coltrane, Art Blakey, Dizzy Gillespie, Wes Montgomery, Johnny Griffin, Freddie Hubbard etc. ) dal nome un pò british, Mr. Cedar Walton, termina il suo concerto dedicato a Monk, applaudito con calore dai 156 spettatori paganti e va in camerino per cambiarsi, scoprendo che oltre alla busta con il cachet di 1'000 dollari è sparito anche l'orsacchiotto che aveva comperato in autogrill per la nipotina a Detroit. Spera anche di trovare un passaggio per tornare in hotel.

EDDIE FRAGOLINO

27 giugno 2007

VILLE E CASALI....IN JAZZ

Nonostante Marshall McLuhan me lo avesso detto (propriamente non solo a me.... e non direttamente), nonostante le avvisaglie ci fossero un po’ ovunque, io non lo avevo capito. Continuavo ad essere ignaro. Il mondo della musica jazz mi appariva da ragazzino come quella isola felice dove il divismo e l’apparenza non c’erano o quasi. Dove contava il merito dell’inventiva e del talento. Per uno cresciuto guardando con ammirazione le jam-session al Capolinea e alla Studio 7 di Milano il mondo del jazz italiano appariva come un fantastico mondo a parte. I mitici aneddoti di Sellani, Basso, Cerri, De Filippi delle sedute nello studio di registrazioni di Barigozzi sono indimenticabili. Poi piano piano scopri che il mondo cambia un po’ ed è normale che sia così, che del jazz italiano iniziano ad occuparsi anche qualche major discografica o meglio, che qualche major discografica si occupa di alcuni nomi del jazz italiano. Tra l’altro di musicisti d’indiscusse capacità e talento.
Che piano piano, senza che neanche loro stessi se ne rendano conto, quei pochi nomi iniziano a cambiare i loro cachet in base alle esigenze di mercato e poi li cambiano ancora e poi ancora con l’arrivo dell’euro (se ne rendono conto!!!). Le riviste specializzate si occupano sempre più di loro. E lo scenario musicale cambia radicalmente. Le nuove regole sull’enpals danno la mazzata finale ai locali che stavano in piedi facendo suonare jazz . A Milano arriva il Blue Note, chiude il Capolinea, le modalità di fare musica cambiano sempre di più. Chiudono i jazz club ma aumentano i festival, cioè chiudono i posti dove può fare musica anche un musicista non affermato e nascono kermesse che in Italia sono prevalentemente riservate alle nuove star del jazz e soprattutto ai big stranieri. Le jam session sono introvabili. Il jazz viene trasmesso da qualche radio da fighetti nella versione più melliflua possibile. Nascono musicisti come Amalia Grè, Giovanni Allevi, Mauro Biondi, Ivan Segreto. Scompaiono sempre di più alcuni nomi che hanno fatto la storia del jazz, anche del jazz recente (...ma il grande Maurizio Giammarco dove suona?). Anche in questa musica, tutto va consumato veloce e subito. Il jazz è soprattutto una merce da vendere. I direttori dei giornali specializzati ammettono senza problemi che hanno bisogno dei grossi e dei soliti nomi in copertina e nei cd allegati perché devono vendere. E i soliti nomi sfornano quintalate di cd, anche con progetti improbabili, di cui musicisti geniali come loro potrebbero fare a meno. Ma il mondo va così e certe volte davanti a un allievo di 15, 20 anni di talento che vorrebbe vivere di musica non si sa cosa dire. Anzi stamattina mi verrebbe da suggerirgli di leggere di Arrigo Polillo non il solito “Jazz”, ormai soppiantato da testi più interessanti, ma il suo meno conosciuto “Stasera Jazz” del 1978 (Mondadori) dove l’eminente critico musicale descriveva gli inizi del jazz in Italia, del Circolo del Jazz Hot a Milano degli anni ’30, le avventure di Armando Trovajoli al festiva di Parigi, di Nunzio Rotondo, Umberto Cesari, del Festival di Sanremo (quello di jazz) e di molto altro ancora.
Poi, anche se ti viene un po’ da ridere quando scopri cha la rivista “Ville e Casali” (trovata per caso in un agriturismo in Basilicata) pubblica un numero speciale dedicato alle “case” dei jazzisti italiani, bisogna riconoscere che questi stessi musicisti hanno reso importante il jazz italiano nel mondo e quando salgono sul palco ci sanno sempre emozionare. Allora metto nel cd player un cd di Bollani e mi riconcilio con il mondo, ma mi chiedo: come li aveva disposti i libri Bollani a casa sua nelle foto di “Ville e Casali”? Avrei dovuto proprio imboscarmela quella rivista quel giorno.

Max De Aloe

24 aprile 2007

Nanuk l'eschimese, i Q3 e Giovannona Coscialunga



Per posta mi arrivano molti cd di jazz e una valangata di mail di musicisti che si propongono per il Festival Jazz di Gallarate. Un numero spropositato, neanche fossimo Montreux o Umbria Jazz o il meraviglioso e ricco festival dell’Aia. Cerco di rispondere a tutti e soprattutto ascolto, insieme ad altri amici del Centro Espressione Musicale, il materiale che ci arriva. Purtroppo il festival di Gallarate, per quanta cura, amore e passione ci si metta ad organizzarlo ha soltanto tre serate l’anno. Percui gli esclusi sono tanti, troppi purtroppo.
Tra i cd mi è arrivato nei mesi scorsi “On cue”, opera prima di un trio di Lugano i Q3. La prima cosa che mi colpisce è la grafica del cd, moderna, accattivante, studiata nei particolari che rispecchia la stessa idea del sito. Una novità, in quanto il design dei cd e dei siti nel mondo del jazz spesso lascia a desiderare. Negli ultimissimi anni la cosa è migliorata ma penso che nei cd di jazz italiano ci siano le peggiori copertine della storia della musica. Tra i primi posti dell’orrido, e non mi vergogno a dirlo, il mio cd cofirmato in trio con Massimo Moriconi e Mike Melillo dedicato a Matt Dennis e Bruno Martino (e la sostanza musicale non è molto meglio….).
Ascolto “On cue” e scopro una freschezza musicale e una modernità nella scelta dei suoni e del modo di proporsi verso l’idea del jazz targato terzo millennio. Se analizzati singolarmente i musicisti non sono certo dei grandi virtuosi (per fortuna!! sono troppo stanco di tutti quelli che vogliono mettere in un brano tutto quello che sanno fare) ma l’insieme è molto interessante. Si sente che c’è la tradizione del jazz ma anche l’amore per il “drum and bass”, per le sonorità funky rock anni ’70, per la musica che arriva dal Nord Europa e chissà quant’altro.
Ci faccio un pensierino, ma sento la necessità di andarli ad ascoltare dal vivo.
Tra le date del loro sito vengo incuriosito da un concerto al Teatro di Chiasso. I Q3 mettono in scena la musicazione di un film muto dal titolo “Nanuk l’eschimese” . Ci scriviamo per mail con il batterista Brian. Parto con il mio amico Gigi alla volta di Chiasso. Ma Chiasso è in Italia o già in Svizzera? Gigi mi rassicura che è già in Svizzera. E’ vero mi dico, ci andavo a comprare il tabacco per la pipa. Vabbè, ma questo poco conta. Anche se a me la dogana mette sempre ansia!!! Sarà per i dognanieri. Un po’ come tutte le divise. Persino i metronotte. Alla mia ignoranza geografica si aggiunge quella topografica di Gigi che fa tanto l’esperto di Chiasso (sarà per certi localini appena dopo confine?) ma in realtà mi porta in un paesino che non c’entra una mazza. Chiediamo a una Svizzerotta che ci indica la strada (solite battute sull’accento e altro che è meglio tralasciare!!!).
Arriviamo in teatro e veniamo sorpresi da un pubblico eterogeneo tra cui molti giovani e giovanissimi che si leggono il programma di sala (ma come? Giovanardi l’altro giorno in tv diceva che i giovani sono tutti in giro a fare le stragi sulle strade e ad ubriacarsi e a fare i filmati con i videofonini?). Anch’ io e Gigi leggiamo il programma di sala e, ignoranti come capre, scopriamo che Nanuk l’eschimese (Nanook of the North) del 1922, del regista statunitense Robert Flaherty, è il primo esempio di cinema documentario che ottenne un successo mondiale ed ebbe una profonda influenza sulla storia del cinema. E noi, caro Gigi, che al massimo eravano arrivati a “Giovannona Coscialunga disonorata con onore” (Edwige Fenech e Pippo Franco, regia di Sergio Martino, 1973 e scusate se è poco!!!)? Si è vero anche quel film ebbe un’influenza non sulla storia del cinema ma di molti adolescenti italiani.
Torniamo al concerto. La curatrice della rassegna introduce lo spettacolo. Brava, poche parole che già mi aspettavo la sbrodolata sul film muto con tutte le ripercussioni sui registi a venire, sull’uso delle camere, dei pianosequenza, del montaggio, delle cineteche nel Canton Ticino e Mendrisiotto, eccetera, eccetera.
Entrano i musicisti sul palco. “Cazzo sono giovanissimi”, dice Gigi. “Cazzo, veramente”, dico io.
Il pianista ha anche le infradito. Mitico!
Documentario e musica partono. Ottanta minuti di poesia. Questo documentario su questa famiglia di eschimesi è meraviglioso con dei momenti di tenerezza e ironia che è difficile trovare. Nanuk l’eschimese diventa subito l’eroe della storia. Ci riporta alle storie di Tarzan (quello epico con Johann Weissmuller, il tarzan campione di nuoto), alla delicatezza dei trucchi magici di Houdini, ai sorrisi di Charlie Chaplin (o almeno è quello che passa per la mia testa). E la musica scorre con grande sicurezza. Anche senza un orecchio attento e critico è evidente come i giovani tre fratelli abbiamo lavorato con grande dedizione e amore alle musiche sulla pellicola.
Simon Quinn al contrabbasso (18 anni, e quando ha registrato il cd, due anni fa, ne aveva 16!!!!!), Nolan Quinn alla tromba, flicorno, basso tuba, live electronics, pianoforte e piano fender (20 anni) Brian Michael Quinn alla batteria e vibrafono (25 anni). Ma quello che stupisce non è solo l’età di per se stessa ma è quanto questo gruppo suoni bene e quanta profondità e sensibilità ci siano in queste musiche. Sicuramente Nanuk e Q3 per quanto sarà nei miei poteri si rifarà nel prossimo festival di Gallarate (in programma il 5,6 e 7 ottobre 2007) ma soprattutto io sono diventato un vero fan dei Q3. Alla faccia di Giovanardi.
No dai Gigi, non possiamo proporre “Giovannona Coscialunga disonorata con onore” con le musiche dei Q3. J
Ah, dimenticavo : http://www.qtrio.ch/


Max De Aloe



17 aprile 2007

Sergio, Mine Kawakami e l'intuizione sprecata dei concerti soporiferi!!

Ho scoperto che c’è una musicista giapponese, Mine Kawakami, che ha portato in Europa i suoi concerti di “musica soporifera”. Recentemente si è esibita a Madrid in una sala dove il pubblico si è presentato al concerto con cuscino e abiti comodi. Invece delle poltrone il pubblico stava disteso sui tatami con l’obiettivo di addormentarsi. Sì, sembra che in Giappone i concerti “per far addormentare il pubblico” siano molto diffusi: un metodo infallibile per eliminare lo stress. Su un inserto del Corriere ho visto anche le foto. I Giapponesi sono avanti e Madrid è la capitale europea del vizio, no c’è dubbio.
Comunque, non per tirarmi delle pose, ma ognitanto quando ai miei concerti viene il mio amico Sergio anche lui dorme, ne ho i testimoni. Addirittura mi è capitato che qualcuno del pubblico, a fine concerto mi abbia detto, con un po’ d’imbarazzo: “sai che c’era una che dormiva?” . “Non vi preoccupate è Sergio, ho risposto io, se dorme vuol dire che va tutto bene”.
E io questa cosa qui di fare dormire il pubblico dovevo organizzarla meglio, dovevo capirla prima. Sergio mi ha dato spesso una dimostrazione di questo e io mi sono lasciato sfuggire i segnali così, senza coglierli. Altro che intuito d’artista! Ho perso un'occasione. Che potevamo esserci anche io e Sergio con i nostri faccioni sul Corriere.
L’altro giorno al concerto di inaugurazione dell’associazione amici nell’arte, mi sono accorto che qualcuno del pubblico alla fine di “Ul giuan Martora” e “Pack” piangeva, vale qualcosa? Una foto almeno sulla Prealpina? Parlerò con i miei musici compagni di viaggio, bisogna inventarci qualcosa. Cosa gli facciamo fare al pubblico durante il concerto? Non vorranno mica ascoltarla la musica? Aspetto suggerimenti. Aiutatemi.

Max De Aloe

16 febbraio 2007

I pianisti italiani che non mangiano la pasta al tonno!!!


Mi sento quasi in colpa. Questo povero Allevi me lo avete massacrato. Io volevo scherzarci un po’ su e invece le risposte al post sono state delle legnate tra i denti!!!! Tanto poi noi musicanti parliamo parliamo ma poi…..siamo quel che siamo. Che se il signor Allevi mi chiamasse perché ha bisogno un solo di armonica su un suo nuovo pezzo o se mi proponesse un duo di armonica-pianoforte in un concerto a Tokyo ben pagato cosa faccio io non ci vado? Ci vado sì!!! Brutta merdaccia che sono. Oscuro sul mio blog il post che lo riguarda e ci vado. Allora cosa scrivi a fare, dite voi? Allora cosa scrivo a fare, dico io? Che sei proprio un “parla parla” come tutti, caro pifferaio matto che suona l’armonica cromatica lui. Te oscura pure il post che parla di Allevi che tanto lui l’ha già letto, lui le ha già stampate quelle cose brutte che scrivi su di lui. Cosa prendi in giro, che anche Luzzato Fegiz le ha lette le “cosacce” che hai scritto su lui. Che non posso andare neanche più al Festival di Sanremo a cantare una canzone di amore che lui mi stronca. Ma continua a suonare l’armonica “acrobatica” e non scrivere più le cose cattive sui pianisti!!!! Che è tutta invidia la tua!!!!
Ecco la mia coscienza cosa mi dice!!!!!! Sensi di colpa che mi offuscano la mente, che mi lasciano insonni la notte. Povero Allevi, io non volevo…….con tutta quella pasta al tonno che si è mangiato.
Vabbè siccome concordo con tanti che hanno risposto al post che dicono che il signor Allevi non c’entra con il jazz (- ma cos’è il jazz???? solidale con chi scrive che c’entra di più con Richard Clayderman) allora mi permetto di suggerire agli amici che seguono questo blog un po’ di pianisti italiani di jazz che secondo il mio modesto avvisto non hanno i santi in Paradiso di Allevi ma suonano grande profondità facendo musica d’arte.
Insomma dei grandi artisti, alcuni molto famosi nel panorama jazz altri appena noti ma ugualmente degni di ascolto. Quelli che mio avviso sono “artista puro” (come direbbe il mio amico e grandi chitarrista “carioca” Beppe Fornaroli). Se volete andate a cercare i loro cd, i loro siti e quant’altro.

Antonio Zambrini
pianista milanese – suona in maniera molto “europea” – compone come pochi in Italia. Penso cinque cd a suo nome. Bellissimo il suo esordio con “Antonia e altre canzoni” per la Splasc(H) Records e poi gli altri cd sono prodotti da Abeat.

Glauco Venier
Raffinato, colto, ispirato tra i tanti da John Taylor.
Suggerisco “Gorizia” con un meraviglioso Kenny Wheeler e poi il suo cd in trio “Un anno” , entrambi prodotti da Artesuono.


Andrea Pozza
Il più bravo “accompagnatore” che abbiamo in Italia. Non è un caso che Rava l’abbia preso nel suo nuovo quintetto per sostituire Bollani e che il patron dell’ECM Manfred Eicher sia affascinato dal suo modo di suonare.

Umberto Petrin
Penso che sia tra più grandi pianisti “immaginifici” del nostro jazz. Suona bene ovunque ma il suo meglio lo dà nei progetti di confine. Che ci sia una ballerina, un attore o un artista cibernetico sul palco Petrin riesce a suonare negli “spazi” tutt’attorno, non prevaricando mai ma costruendo cornici di musica meravigliosa. Suona come potrebbe dipingere se fosse un pittore. C’è un bel DVD prodotto da Feltrinelli con Stefano Benni dedicato a Thelonius Monk.


Marco Detto
Energia e melodicità miscelati insieme in un cocktail unico. Il trio classico (piano-contrabbasso-batteria) è il suo ambiente congeniale. Scrive brani che solo un musicista di jazz italiano potrebbe scrivere. Forse una quindicina di cd a suo nome tra cui vanno citati “What a wonderful World” registrato a New York con Eddie Gomez e Lenny White ma anche “Altrove” o “BlueStones” o molti altri, tutti realizzati dalla Mingus/Music Center

Rita Marcotulli
Ascoltate il suo cd “Koinè”, uno dei lavori più interessanti degli ultimi anni. Mi dicono sia bellissimo anche il suo ultimo in piano solo ma non ho avuto ancora il piacere si ascoltarlo. La Marcotulli è una pianista raffinata, originale, capace di grande progettualità.


Poi ci sono pianisti ancora più noti che non avrebbero bisogno di menzione.


Enrico Pieranunzi
Difficile trovare un suo cd non interessante. Penso che sia il nostro pianista più noto nel mondo insieme a Dado Moroni e Stefano Bollani. Tra i tanti cd di Pieranunzi voglio citare “Racconti mediterranei” dell’Egea (meraviglioso) e poi “Fellini jazz” della CAM , “Ballads” e uno bellissimo con Chet Baker di cui non ricordo il titolo.

Dado Moroni
Ha suonato con tutti e inciso con chiunque in giro per il mondo. Dicono di lui che suoni all’americana. Io penso che sia un pianista talmente “musicale” che può suonare come vuole. Affascinante il suo duo con Kenny Barron.

Stefano Bollani
Non ha bisogno di presentazione. E’ spesso anche in tv. L’ho ascoltato in diversi contesti: nel ’96 a Siena Jazz con l’orchestra della Toscana e Richard Galliano; qualche anno dopo nella Sala Verdi del Conservatorio di Milano con Rava e Gato Barbieri in un omaggio a Gershwin, poi con L’orchestra del Titanic, con il suo trio, con Rava in quintetto e in duo, in piano solo. E ogni volta è pertinente, geniale, interessante, attento a chi sta accompagnando. Suggerisco due cd completamente differenti tra loro: l’ultimo cd per l’ECM in piano solo dal titolo “Solo piano” e il suo cd “L’orchestra del Titanic” della Viaveneto di qualche anno fa.

Danilo Rea
Ascoltatelo con i suo DOCTOR 3 ma anche con Maria Pia De Vito ed Enzo Pietropaoli nell’omaggio a Joni Mitchell.

E poi è doveroso citare anche nomi di altri illustri pianisti del jazz italiano come Renato Sellani, Mario Rusca, Arrigo Cappelletti, Franco D’Andrea, Enrico Intra, Antonio Faraò, Paolo Birro, Paolo Brioschi, Rosario Di Rosa, Paolo Paliaga, Michele Di Toro, Mario Zara, Alfonso Santimone (da ascoltare il suo cd con Silvia Donati per Abeat), Luca Flores, Davide Santorsola (ottimo il suo manuale di piano jazz edito da Ricordi), Luca Mannutza, Salvatore Bonafede, Massimo Colombo, Giuseppe Emmanuele e chissà quanti altri che dimentico o che non conosco.

Buon ascolto a tutti

P.s. la maggior parte di questi non mangiano pasta al tonno


Max De Aloe

11 gennaio 2007

Il pianista che annusava una volta a settimana

Ora se tu fai il musicante la gente si sente un po’ obbligata quando t’incontra a parlare di musica. Del tipo un po’ di tutto: ho sentito quel cd, ho sentito quel concerto, quando va bene. Più spesso capita: c’era un mio amico al liceo che suonava la chitarra elettrica in un gruppo rock, lo conosci? No che non lo conosco. Si, dai, si chiama Colombo e suonava in un gruppo che facevano i pezzi dei Queen ma adesso lui lavora in una ditta di piastrelle. Dai, lo conosci? No, mi sa che non lo conosco. Oppure, e questo è un classico: ho sentito uno alla radio che non mi ricordo chi è che ha fatto un cd che non so il titolo ma suona il pianoforte. Dai, fa il jazz? Va che non lo so, è la risposta ma poi ti viene il dubbio e chiedi: ma per caso ha fatto anche un libro? Sì! Allora è Stefano Bollani.
Se poi ti dicono: ho visto uno in tv che suona il pianoforte e fa il jazz. Te dici: ha i capelli tutti ricci e un po’ lunghi? Sì è la risposta ma stai attento che ce ne sono due e sono gli unici due che suonano il pianoforte in tv e fanno il jazz. Uno è quello che ha scritto anche il libro di cui sopra ed è un genio e se ci fosse anche su tutti i canali e in tutte le trasmissioni a suonare il pianoforte sarebbe solo un sollievo per le nostre orecchie tediate dalla non-musica che la tv ci offre. L’altro invece, quello che racconta sempre che faceva il cameriere e ha dato il suo cd a Muti al ristorante ma poi Muti l’ha lasciato sul tavolino, quello è meglio lasciare stare. Ultimamente si è visto più lui in tv che Pippo Baudo. Poi racconta anche che per mesi interi ha mangiato solo pasta al tonno. E giro canale ma lui è da un'altra parte lì a raccontare sempre di Muti che non se l’ è filato e della pasta al tonno e poi dice anche che lui la musica ce l’ha sempre dentro che non può pensare che alla musica. Poi lo rivedo alla trasmissione della Dandini e parla di pasta al tonno, che faceva il cameriere a Muti e che lui, il pianista geniale, dedica un giorno della settimana a telefonare e un giorno alla settimana ad odorare. Poi suona e te pensi che Muti ha un gran fiuto e che non è un caso che il cd l’ha lasciato sul tavolino del ristorante.
Poi spengo la tv e cerco di dormire ma non ci riesco, un dubbio mi attanaglia la mente: quale sarà esattamente il giorno della settimana che dedicherà ad annusare?

Max De Aloe

6 dicembre 2006

L’armonica cromatica, Oh Susanna e il decreto Bersani


Mercoledì 6 dicembre 2006

Sapevo che prima o poi sarebbe successo…. Sapevo che prima poi su questo blog avrei dovuto parlare anche di armonica. Lo sapevo.
D’altronde te fai l’armonicista è normale che qualcuno ti chieda dell’armonica, se te facevi il falegname ti chiedevano dell’impregnante da mettere sul tavolo per non fargli venire i tarli o se te facevi il commercialista ti chiedevano se Bersani ha fatto bene. E da commercialista cosa avresti risposto? Come tutti gli altri commercialisti: che disastro sto decreto Bersani! Cazzo vuole sto Bersani! Sarebbe stato meglio che Bersani fosse andato a ramare il mare! Che fosse diventato ministro agli aggiornamenti della Play Station! E poi? E poi come tutti gli altri commercialisti avresti alzato i prezzi a tutti i clienti. Perché con il decreto Bersani dobbiamo alzare i prezzi (?!?). Dicono loro! Che adesso ci tocca lavorare di più! Loro, i commercialisti! Che lo vorrei anch’io un ministro che fa un decreto che poi non si sa come e perché tutti i musicisti devono alzare i prezzi.
Che poi i musicisti dicono: è colpa del decreto Fighetti Giancarlo, mica nostra! Vero! E i musicisti li pagano di più, anzi….li pagano.
Sapevo che prima o poi anche qui arrivavano gli appassionati armonica. Ho letto caro Ninni la tua risposta al post “Por la vida” dove ti sei insinuato e mi hai fatto le domande sull’armonica. Va che mi sono accorto. Che gli appassionati di armonica sono furbi. Io lo so. Lo so che sono furbi. Ma i principianti a me sono simpatici perché non c’hanno ancora tutti i tic di quelli più avanti. Sì perché suonare l’armonica cromatica ti aiuta a diventare due cose: o ironico e sempre incazzato. Percui, caro Ninni che mi scrivi come si fa a diventare come me sappi che se non ti piacerebbe vederti in un futuro prossimo o più ironico e più incazzato cambia subito strumento. Perché te dopo un po’ che suoni questo pezzo di ferro inizi a sentire la gente che ti dice: “Oh, oh, ma la sai ‘Oh Susanna’, che io da piccolo la sapevo suonare?”, “Oh, ma me lo fai il treno?!”, “Oh, ma ci leggi la musica con quella specie di strumento musicale lì?”, “Oh, ma le sai tutte le canzoni degli alpini?”, “Oh ma la fisarmonica a bocca è in do”? Che te o diventi ironico negli anni oppure “Oh Susanna’, gli dici, te gli dici, te la suoni te!”. Per non parlare della sequela armonica cromata, armonica acrobatica, armonica con il pistolino di fianco, fisarmonica a bocca…..per chiudere con (giuro): fisarmonica a bocca con il pistolino di fianco….ma piccola (riferito alla fisarmonica)!!! E’ vero! Ve lo giuro, mi è capitato.
Suonate il sassofono che nessuno vi rompe le palle! Datemi retta!
Ninni lascia stare! suona la batteria che gli spacchi i timpani ai vicini, quei bastardi. Si perché sono sempre i vicini di casa, travestiti, che li trovate in giro che vi fanno le domande del tipo: ma come si suona quella cosa? Guarda è facile, te gli rispondi, io ci provo da vent’anni ma adesso mentre saliamo in ascensore dal piano terra al terzo piano te lo spiego. Ci vuole poco.
Caro Ninni, va che non ce l’ho con te, che lo sai che vi voglio bene, che su jazzitalia ho scritto un sacco di cose belle sull’armonica. Che adesso è un po’ che non ci scrivo perché sono qua chiuso in casa che sto scrivendo un bel metodo per armonica cromatica. Un sacco di pagine, un sacco di esercizi, un sacco di scale, insomma un metodo che si potrebbe chiamare “L’armonica cromatica…..due maroni così”, oppure si potrebbe chiamare “L’armonica cromatica: come farti passare la voglia”. Giuro che è vero che lo sto scrivendo. Che tutte le volte che vedo i metodi per armonica ci sono su i fumetti, tre righe di spiegazione e poi le canzoncine. Com’è che i metodi degli altri strumenti sono pieni di note, esercizi, esempi? Belli, seri, rilegati bene. Certo che poi il vicino di casa ci chiede di suonare “Oh Susanna”. L’ha visto lui sul metodo “armonicisti in 24 ore” che c’è “Oh Susanna” e adesso vuole che la suoniamo.
Allora lo sto scrivendo io un metodo veramente noioso per l’armonica cromatica così vi annoiate subito e smettete. Lo faccio per il vostro bene.
Comunque caro Ninni, giuro che risponderò presto alle tue domande. Questa mattina lo volevo fare ma poi mi sono fatto prendere la mano. Ora vi saluto ma ricordate: non mi chiedete mai di suonare “Oh Susanna”, vi prego! Ho l’esaurimento nervoso. Vi prego!

Max De Aloe




25 novembre 2006

Por la vida



Sabato 25 novembre 2006

Fin da ragazzino conosco Raffaella Tagliabue, oggi attrice di teatro di talento. Amicizie in comune, abitiamo nella stessa città ma niente di più. A metà anni ’90 lei va a Genova per seguire la scuola di recitazione del Teatro Stabile e io proseguo il mio girovagare da musicante. La rincontro anni dopo per la realizzazione di un cd, io ovviamente ci suono e lei recita una poesia. Mi racconta che vive sempre a Genova, che il teatro continua ad essere la sua passione, la sua vita e il suo lavoro. Passano anni e lei in un giorno di settembre di quest’anno in un negozio di dischi di Genova s’imbatte nel mio ultimo cd. Ascolta la versione di Bebo Ferra e mia di “El dia que me quieras” e sembra fatto apposta: infatti insieme all’amica e attrice Elena Dragonetti stanno scrivendo “Por la vida”, uno spettacolo sulle madri di Plaza de Mayo.
C’incontriamo: l’occasione è una data in un piccolo club del mio spettacolo “Un controcanto in tasca”. Elena a fine spettacolo ha gli occhi che le brillano. Imparerò a conoscerla come una donna determinata e di talento ma anche capace di guardare al di là delle cose. Sapeva fin da quella sera che avrebbe funzionato.
Il giorno dopo mi recitano “Por la vida” e rimango stregato, ma il testo è talmente forte che mi ci vuole un po’ per riuscire a far capire che il mio silenzio a fine recita è solo stupore, smarrimento, emozione per una scrittura e una recitazione così intensa e un tema come quello dei desaparecidos che t’inchioda alla poltrona.
A “Por la vida” si aggiungono così le mie musiche con la mia figura un po’ goffa in scena. Iniziamo a provare lo spettacolo prima a casa mia a Gallarate, sorretti anche dalle cene e dall’entusiasmo di mia moglie.
A inizio di settimana scorsa vado a Genova per le prove generali e la prima nazionale che abbiamo realizzato al Teatro della Gioventù giovedì 23 novembre.
Sono tre giorni intensi. Genova è piena di sole. Tre giorni nei quali ho l’occasione di conoscere meglio uno spaccato del teatro indipendente italiano. Che in soldoni vuol dire farsi un mazzo incredibile ma, non so perché, essere felici. Raffaella ed Elena sono due rocce. Sono brave, capaci, modeste sempre, distanti anni luce dalle attriciucole da soap opera. Sono stanche ma l’entusiasmo e l’amore viscerale per il loro mestiere sorregge tutto, anche me che sono abituato ai ritmi più gozzoviglianti dei musicisti. Spostano pezzi di scenografia da una parte all’altra di Genova a piedi. Invadono gli autobus con appendiabiti e panchine. Si girano tutti i negozi di cinesi alla ricerca di qualcosa che manca alla scenografia. Affrontano i burocrati del teatro con piglio sicuro. Proviamo per ore e ore di seguito come non mi è capitato neanche con Franco Cerri, noto nell’ambiente del jazz come il più rigoroso nelle prove. E nel loro mondo gravitano scenografe e costumiste appena trentenni sorrette da un amore ancora più forte perché neanche appagate dal narciso di apparire in scena che passano nottate a pitturare lanterne o costruire panche. Per fortuna nel loro mondo ci sono anche Antonello del negozio di dischi in via Cairoli che mi riporta un po’ alla musica e soprattutto Fausto, il proprietario della Taverna di Colombo (o una cosa del genere) che tiene aperto il ristorante anche se non c’è nessuno per non farci saltare anche la cena. Si perché nel teatro indipendente italiano a quanto pare si mangia una sola volta al giorno, se va bene. Una cosa che sarebbe impensabile nel mondo del jazz. Anzi sarebbe la rovina del jazz: la sua estinzione, come un virus letale. Incompatibile con il dna del musicista di jazz che mangia sempre prima del concerto contravvenendo a una regola dei teatranti o di molte altre tipologie di musicisti che mangiano sempre dopo lo spettacolo.
C’è un vento fascinoso a Genova la sera e anche scendere da Castelletto a piedi, con una panca della scenografia in spalla, ha un effetto strano, piacevole, rilassante. Rifletto sullo scorso spettacolo di Elena e Raffaella su Ulriche Meinhoff dal titolo “Appese a un filo”, di cui ho visto un dvd, sempre prodotto da Narramondo Produzioni Teatrali di Firenze e penso che sia importante trovare qualcuno in questa Italia che ha ancora voglia di realizzare spettacoli d’impegno. Teatro “civile” qualcuno lo chiama.
Le notti poi leggo a casa di Elena, dove sono ospite, la biografia di Peter Brook edita in Italia da Feltrinelli e penso di aver perso un pezzo di vita a non aver ancora visto un suo spettacolo.
Poi il giorno della prima: le prove si risolvono solo nella prova luci. Il teatro era disponibile solo dal pomeriggio. Non c’è tempo neanche per una “tecnica”, così come la chiamano loro e si va in scena.
E’ diverso da un concerto. C’è più fermento, ansia, entusiasmo. Sento che qui c’è più attenzione al progetto. Tutto è più corale.
Entro in trans per un’ora e mezza e prendo fiato solo mentre suono perché devo pensare solo a quello. In quel momento suono bene e mi ricongiungo a me stesso ma subito Elena e Raffaella mi ributtano nei carceri dove torturavano i desaparecidos, nelle milonghe dove si balla il tango, in Plaza de Mayo ad imparare la lezione di madri che grazie al loro “esserci sempre” hanno permesso ai loro figli in qualche modo di non morire.
Un’ora e mezza. Si riaccendono le luci e tra il pubblico che applaude qualcuno piange. Sono felice di fare questo mestiere, sono felice di avere incontrato Raffaella ed Elena. Prendo l’auto e nella notte torno a casa.
Max De Aloe

12 novembre 2006

Jorge Ben o George Benson?

Ho ricevuto molte mail in relazione all’ultimo blog sull’illustre critico musicale. Mail che come spesso accade citavano “mancanze” e grandi superficialità dei professionisti del nostro Belpaese con riferimenti particolari alla categoria dei giornalisti e dei critici musicali. Intanto proprio mentre mi arrivavano mail su questo argomento l’amico e grande contrabbassista jazz Riccardo Fioravanti mi fa notare che su Repubblica di venerdì scorso 9 novembre c’è un articolo sull’ultimo cd della Mannoia dedicato alla musica brasiliana con star d’eccezione. Tra i tanti si cita anche Jorge Ben ma la foto con tanto di didascalia del compositore di “Mas que nada” è invece quella del chitarrista Gorge Benson. Beh, in effetti è facile sbagliarsi, sempre di musica si tratta….poi sono compositori entrambi….e entrambi sono di colore. Percui, dove’è il problema? Ma stavolta l’errore è sicuramente della redazione non certo del giornalista che una volta consegnato il pezzo ha poco controllo su quello che avviene nell’impaginazione dell’articolo.
Vero però che la critica musicale in Italia sia spesso incapace di approfondimenti, svogliata, facilmente incline al copia-incolla, ridotta a un semplice asservimento delle major discografiche. Un po’ come i dee-jay radiofonici, un tempo capaci diffondere le vere novità (il grande “Lupo Solitario”) o in grado di costruirsi radio indipendenti, libere, varie come in Italia negli anni ’70, oggi invece ridotti nella maggior parte dei casi a seguire un palinsesto preordinato o votati alla battuta facile, al semplice intrattenimento.
Per non parlare della nostra TV, privata o di Stato che sia, è lontana anni luce dal darci un input musicale che non sia una hit parade preregistrata per adolescenti svogliati da rendere sempre più omologati.
Chi oggi sulle pagine d’importanti giornali ci consiglia un cd lo fa più per inciuci diretti tra addetti stampa che per capacità di analisi reale del prodotto. Ma tutto questo lo sappiamo. O lo immaginiamo. Ma il problema è che è molto peggio di come lo possiamo ipotizzare.
Chiunque segue la musica da vicino in Italia rischia di disamorarsi sempre più dalla funzione della critica che invece avrebbe un suo valore nobile. Sì perché purtroppo questo malcostume ci porta a pensare che il critico musicale sia inutile. In realtà il ruolo della critica sarebbe fondamentale per il pubblico che avrebbe lo possibilità di avere utili e accurati suggerimenti nel mare sconfinato della musica che viene prodotta e l’interprete/musicista/compositore avrebbe un riferimento concreto e professionale sul suo lavoro come in quelle belle note di copertina sui vinile degli anni ’50 e ’60 dell’Impulse, Columbia o Blue Note.
E voi che ne dite?

Max De Aloe

29 ottobre 2006

Il critico nazionale!!!

Mario Luzzato Fegiz è un illustre critico musicale. Il critico musicale del Corriere della Sera. Del più importante quotidiano italiano. Spesso lo si è visto alla televisione italiana ai dopofestival del Festival di Sanremo sorreggendo o criticando gli Al Bano e i Reitano di turno. Un critico noto per musicisti noti, come Al Bano e Reitano appunto. Abbiamo avuto il piacere di vederlo anche fare la parte del giurato a una trasmissione come Music Farm. Il reality dei cantanti (?!?!) Tutto normale, tutto in linea con la nostra televisione, con la nostra musica, con i nostri giornali.
Mercoledì 18 ottobre sulle pagine del Corriere della Sera Mario Luzzato Fegiz firma l’articolo dal titolo “Addio ad Andrea Parodi l’ indiano dei Tazenda”. Un articolo sulla morte di Andrea Parodi. Ne descrive le tappe più importanti della sua carriera ma a un certo punto dell’articolo c’è lo scivolone. Il copia-incolla non funziona e il nostro critico miscela parte della carriera di Andrea Parodi (senza peraltro citare la sua intensa collaborazione con Al di Meola) con la vita di Paolo Fresu. Ma come mai? Forse perché sardi entrambi? Insomma in una girandola di gaffe trascrivo fedelmente: “….Nel 2000 arrivò la nomination per il ‘Django D’Or’ francese come miglior musicista internazionale insieme a Keith Jarrett e Charlie Haden…..” e ancora prima ci sono parti della vita del trombettista sardo infilate nel coccodrillo del povero Parodi.
Chiunque volesse leggersi l’articolo può andare sul sito del Corriere della Sera ma vi avverto: gli articoli tratti dall’archivio costano 5 euro….

Max De Aloe

11 ottobre 2006

L'altrove e il dentista-editore-poeta varesino

L’anno scorso un editore-poeta-dentista varesino mi chiese se avessi voluto partecipare ad un libro fotografico con artisti e pseudo tali varesini. Per rompere le mie titubanze mi disse che c’erano anche, tra i tanti, Missoni, Boldi, Jacchetti e Dario Fo. Missoni, Boldi e Jacchetti mi stanno sulle balle ma l’idea di essere vicino a un premio Nobel (seppure trombato alle primarie dell’Ulivo a Milano-ma questo succedeva dopo-) solleticava il mio ego con la delicatezza dei cannoni di Navarone.
Mi convinco velocemente e l’editore-poeta-dentista varesino o meglio, nell’ordine, dentista-editore-poeta varesino mi dice che di fianco alle foto di questo noto fotografo avrebbero voluto mettere degli scritti dell’artista. Il tema era l’altrove (?!?).
Le fote me le hanno fatte, lo scritto l’ho consegnato.
Il libro poi non l’ho comprato, l’ho sfogliato in libreria e ho scoperto che tra i tanti c’era anche il mio faccione in una posa ispirata con l’armonica in mano che sembra un cellulare (che molti avranno detto ma chi è questo pirla che si fotografare con il cellulare in mano?). Ma lo scritto di fianco alla foto non c’era.
Ho mandato una mail al dentista-editore-poeta varesino e mi ha risposto che lo scritto era poco artistico ed è stato cestinato e che siccome faccio il musicista tutti si aspettavano che mettessi uno spartito.
Allora ho pensato che lo scritto lo metto sul post di questa sera. Se avete voglia leggetelo sennò cestinatelo con un clik come il dentista-editore-poeta varesino.
Buona lettura


La redattrice mi chiama al telefono e mi spiega il progetto. Poi arriva il fotografo e mi fa le foto. Non è che m’imbarazzo con le foto. Ma una noia, una noia. Il fotografo lui sì che è bravo, ma bravo veramente ma a me sta storia qui di mettersi in posa per le foto va che è dura. Che la foto della prima comunione con tutti i bambini sull’altare con in mezzo il monsignore io me la ricordo bene. I dieci minuti più lunghi della mia vita. Più di dieci minuti, perché il Paolo Castiglioni e il Paolo Azzimonti erano già usciti dalla chiesa e noi lì tutti in posa sull’altare ad aspettarli. Che anche il monsignore iniziava a farsi venire i fumi. Me la ricordo bene sta storia della foto della prima comunione.
Poi la redattrice mi dice che devo scrivere qualcosa per il libro delle foto. Ma, mi scusi, ma il poeta può scrivere una poesia, lo scrittore un piccolo racconto, il pittore fa un bel ritratto e il musico cosa scrive? Può mettere uno spartito, mi risponde. Ha ragione. Che poi, mi dice, anche l’attore, per esempio, cosa scrive? Cosa scrive, dico io. Cosa scrive, dice lei. Boh! Diciamo insieme. Ma penso che mettere uno spartito sembra proprio che io ci credo veramente a sta storia di fare il musico che compone anche. Che a dire che faccio il musico già si fa fatica che c’è sempre uno che ti dice: ah, ho anch’io degli amici che suonano. E poi, e già lo sai che te lo dicono, sì ma di lavoro vero cosa fai? Che una volta per sbaglio ho detto anche che componevo e uno mi ha detto: come Mozart. Che io da quel giorno lì non dico più niente.
Per aiutarmi allora la redattrice dice che il tema è “l’altrove”. L’idea della partenza e del ritorno dell’artista nella città natale. E già mi vedo in tournée io, la mia armonica e il fido contrabbassista Riccardo Fioravanti. Mi passano per la testa tutte le mie belle citazioni di Pessoa, l’Aleph di Borges, mi sento già un piccolo Neruda a La Manquel, la sua casa in Normandia, dove si era rifugiato dopo aver preso il premio Nobel. Penso pure a “innamoramento e amore” di Alberoni e alla sua mogliettina che non mi ricordo come si chiama e a quel punto capisco che la cervice mi è esplosa in una melassa di egocentrismo e farneticamento cronico da commentatore di calcio in TV. Mi do una smossa.
Oh, mi dico - Va mio bel zifulatore di armonica che te non è che a suonare vai alla Carnegie Hall e neanche all’Opera di Parigi. E va che anche se ci andassi poi ritorni sempre a Busto Arsizio. Che non fa né trendy né bohemienne. Penso ai miei viaggi da musico: Agrate Brianza, Voghera, Cardano al Campo ma anche Bitonto, Cosenza, Ponsacco, Fasano. E la cosa più forte e intensa che riesco a tirare fuori dalla mia sensibilità di artista è sta storia dell’auto poi da spostare. Sì perché te puoi suonare ovunque ma appena arrivi c’è sempre uno che ti dice che puoi scaricare i tuoi strumenti ma poi l’auto la devi spostare. Può essere l’organizzatore di un Festival, il custode di un teatro, il barista etilista dello stand “arte, cultura & focaccia” del Festival dell’Unità ma quella frase lì te la devono dire appena sei arrivato. Che proprio pochi giorni fa alla Villa Erba di Cernobbio non faccio in tempo ad arrivare che mi dicono che lì sul retro dove scaricavamo i nostri bei strumentini la mia auto non la potevo lasciare. Siccome ultimamente sono suscettibile e rispondo che se è per me io prendo su tutto e come sono arrivato me ne torno a casa; quella volta lì siccome mi pagavano tanto ho detto va bene e l’auto l’ho spostata ma l’ho messa davanti all’entrata principale, vista lago, zona aperitivo che neanche Montezemolo ci parcheggia la Ferrari. Quelli si sono accorti solo dopo quando i centocinquanta invitati sono arrivati e guardavano la mia Ford Focus tutta infangata mentre i camerieri ci zigzagavano in mezzo per servire i loro salatini. Ah, che bell’altrove, quella volta lì a Cernobbio. Che il mio sogno, non so se l’avete capito è viaggiare per suonare ma parcheggiare l’auto sul palco e suonarci dentro….un giorno all’Opera di Parigi lo farò. Perché girare il mondo significa vederlo come lo vede Dio dall’alto: rotondissimo. Ma questa frase che è l’unica cosa bella di questo scritto non è mia ma di Nicola Bottiglieri. Buon Viaggio e buon musica a tutti…con l’auto vicino.

Max De Aloe

1 ottobre 2006

"Things" e Paolo Fresu

Domenica 1 ottobre 2006



Domenica sera, ascolto “Things”, il cd di Uri Caine e Paolo Fresu uscito da poco per la Blue Note. E’ una bella domenica sera e penso di essere fortunato di godere del piacere della musica.
Ho sempre avuto un amore viscerale per la musica di Paolo Fresu fin dalla seconda metà degli anni Ottanta. Quasi dai suoi inizi. E’ stato un innamoramento musicale dettato dall’istinto, dalle sensazioni, da qualcosa che colpiva il mio immaginario musicale ma che non mi preoccupavo troppo di analizzare. In quegli anni scoprivo il jazz, lo studiavo, avevo un timore reverenziale nel suonarlo e parallelamente continuano a suonare le tastiere nei gruppi rock. Ma registravo su cassetta tutto quello che trovavo: dalla fusion di quel periodo a Louis Armstrong. A diciannove anni ho visto il primo vero concerto di una star del jazz: Miles Davis, era il 1987. Non so se mi fosse piaciuto, era un progetto che allora mi lasciò completamente spiazzato e impreparato e proprio questo contribuì ad alimentare la mia curiosità. Nel jazz intravedevo un codice espressivo che sapevo alla lunga mi avrebbe rapito. Fresu invece mi sembrava da subito accessibile. Una musica di cui potersi veramente innamorare. Poi arrivarono studi musicali più approfonditi con il pianoforte e la scoperta dell’armonica cromatica. In vent’anni il jazz è diventato la mia vita e da allora ho imparato ad apprezzare molti modi di fare musica e molti artisti e cosa ridarei per riessere lì a quel concerto di Davis ma la musica di Paolo Fresu continua ad essere per me affascinante, arricchita di elementi di analisi che negli anni ho imparato ad comprendere ma epidermicamente provo quello che provavo vent’anni fa.
Paolo Fresu è senza ombra di dubbio il musicista più amato e più noto del nostro jazz in Italia e nel mondo. Critica e pubblico sono stati fin dai suoi esordi solidali, cosa che succede di rado, nel tributargli riconoscimenti ed affetto. Sì, perché Fresu è un musicista a cui si vuole bene perché capace, come solo poche grandi star sanno fare, di regalare la sua arte al pubblico con facilità pur suonando cose non “facili”. E’ un grande comunicatore senza usare mai trucchi di scena, artifici da star, strategie di marketing e di abili addetti stampa. Un musicista che ha avuto la capacità e la fortuna di iniziare giovanissimo già tra i grandi del jazz e quella fortuna lui l’ha saputa ripagare regalando negli anni sempre progetti musicali di grande spessore e originalità. Sì, perché quello che colpisce di più di questo trombettista, che è partito da un piccolo paesino della Sardegna e che ha portato il jazz italiano in tutto il mondo, è la sua capacità di coniugare grandi doti musicali con una sorprendente curiosità intellettuale e una modestia innata. Paolo Fresu non unisce solo i suoi musicisti sul palco, i suoi fans nei festival, ma allarga smisuratamente la prospettiva convogliando in progetti culturali e musicali musicisti di diversa estrazione, intellettuali, artisti, poeti, attori, artisti di strada, gente comune per dare vita a dischi, tournée, happening e festival (quello di Berchidda da lui organizzato ne è un vivido e affascinante esempio). Un curioso della vita e della musica che in un mondo di appiattimento culturale risulta essere una sana boccata d’ossigeno.
Ma se da una parte esiste il Paolo Fresu artista curioso e sempre bisognoso di nuovi stimoli con sempre nuovi e sapienti partner musicali, dall’altra parte c’è la fedeltà di uomo sardo non solo alle sue origini e alla sua terra ma ai progetti musicali che negli anni hanno saputo raccogliere consensi e autenticità, come il Paolo Fresu Quintet, la sua prima formazione arrivata ai ventidue anni di attività. Potete ascoltarlo in decine e decine di cd che fanno parte della sua smisurata discografia. Tra i tanti in questa sera domenicale mi viene da suggerirvi il sopracitato “Things” con Uri Caine ma anche “Ensalada Mistica”, “Ballads” o “Live in Montpellier” con il suo quintetto o “Contos” con John Taylor e Furio Di Castri oppure “Kind of Porgy and Bess”, “Metamorfosi” e altri ancora.
Buon Ascolto

Max De Aloe

23 settembre 2006

I Crocevia di Gian Maria Volontè

Grazie per i commenti, le impressioni e le riposte al mio post di benvenuto. E tra citazioni su Seneca di fascinosi lettori, la quanto mai veritiera affermazioni di AG sul girare in tondo a una rotatoria e SP che si trova su un prato in salita (beh, ma ad immaginarsi su un prato è già una cosa che, senza scomodare improvvisate e facili teorie cognitive, è gran meglio che su di una strada….per di più asfaltata) vorrei portarvi l’esempio di un artista che nella vita si è trovato spesso a un crocevia ma che ha sempre scelto, non penso con facilità, la strada del rigore, della dialettica rivoluzionaria tra l’arte e l’esistenza. Un uomo di un talento smisurato che nella società italiana caciarona e opportunista ha sempre rispettato la sua professione di attore come rispetto primario di se stesso uomo. E’ Gian Maria Volontè, un artista di istrionica bravura, spesso considerato fuori fuoco dallo star-system soprattutto per il solo fatto di mettere sempre il suo modo di essere attore al di sopra di tutto. Credibile in ogni ruolo e chissà come mai scomodo in ogni ruolo. Un attore che ha rifiutato hollywood degli anni d’oro e i suoi danari nel nome di una coerenza artistica oggi quanto mai assolutamente fuori moda. Su di lui è uscito recentemente un libro+dvd della BUR a cura di Franco Montini e Piero Spila che ho divorato in una notte insonne. Il libro è ricco di contributi ma colpiscono alcune sue affermazioni come: “…Io sono per la partecipazione critica, e per un rapporto dialettico con la materia complessiva del film, com’è organizzata, vista e raccontata dall’autore. Può darsi che questo in un certo tipo di cinema non accada o accada meno. Comunque, laddove non accada, è un cinema che a me interessa poco” (G.M.Volontè 1979) e ancora:”Io accetto un film o non lo accetto in funzione della mia concezione del cinema. E non si tratta qui di dare una definizione del cinema politico, cui non credo, perché ogni film, ogni spettacolo, è generalmente politico. Il cinema apolitico è un invenzione dei cattivi giornalisti. Io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondano a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me la necessità d’intendere il cinema come un mezzo di comunicazione di massa così come il teatro, la televisione. Essere un attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressiste di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario tra l’arte e la vita” (G.M.Volontè 1984).
Suggerimento di questo post: proviamo a boicottare l’Isola dei famosi, Pupo, Amadeus e Vespa che sta per arrivare e noleggiamoci (se li troviamo!!!!) qualche film con Volontè come “Porte aperte”, “Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, “Il caso Mattei”, “Una storia semplice”, “La classe operaia non va in paradiso” , “Sacco e Vanzetti”, “Todo modo”, ecc. e poi ne riparliamo.
P.s. ma a proposito, quando ricomincia Buona Domenica?
Max De Aloe

17 settembre 2006

Post di benvenuto

Il primo post di questo blog lo userò per approfondire l’idea di fondo già accennata nella breve presentazione del blog.
Il punto di partenza è l’idea del Crocevia, che è poi il titolo del mio nuovo cd che uscirà nei negozi a fine settembre e di cui potete trovare notizie su www.maxdealoe.it
Il Crocevia, l’incrocio tra due strade, dà l’idea del movimento. Ma è anche un luogo che obbliga una scelta: vado dritto o giro? E giro per dove? Il senso affascinante del dubbio che va risolto velocemente perché in un incrocio non si può sostare. Il Crocevia ci porta a una visione dinamica della vita. La piazza può essere un luogo d’incontro anche più piacevole ma stanziale.
La vita di tutti i giorni e soprattutto quella del fare musica (ma vale per chiunque viva con entusiasmo e passione la propria professione) per me va sempre vissuta come in prossimità di un incrocio. Vado dritto o giro? E giro per dove? Che affascinante porsi questa domanda e poi proseguire o svoltare. Poi a qualche incrocio della vita come della musica sale qualcuno con te per un pezzo del viaggio o per un lunghissimo viaggio (la mia anguilla). Mai come in questo momento e in questo cd la mia musica è arrivata a un crocevia, a un momento di svolta che mi porta a riflettere sempre su nuove cose. E sono io il primo ad affascinarmi.
E nello scrivere in questa domenica di settembre, penso a questo mese che ci regala gli ultimi scampoli di sole e non so perché ma la mente ripesca un’ immagine da una lettera di Enzo Tortora alla figlia Silvia che dice….”Aspetto la cosiddetta aria. La vita carceraria è sempre più rivoltante e alienante, ieri abbiamo firmato tutti un lungo documento e così la Fatina (il direttore del carcere, ndr) è servita. Ti giuro il ribrezzo che mi fa quest’uomo è indicibile. Ai vili ho sempre preferito i nemici chiari. Abbiamo giornate di sole: deve essere un bel settembre, mi raccomando fate qualche gita, il settembre è così dolce…Gaia ha problemi con i libri? E tu? Scrivetemi vi prego, non consideratemi un invalido, non lo sono….ancora.
A te, Gaiola e mamma un fortissimo abbraccio, Papà” –Carcere di Bergamo– 14 settembre 1983
Percui mentre ci avviciniamo ai crocevia non dimentichiamo di goderci "questo settembre così dolce".
E voi siete in questo momento a uno dei tanti vostri crocevia?

Max De Aloe

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